Interiorità in una vita apostolica
Incontro con le Suore della Divina Volontà
18 febbraio 2023
Mi è stato chiesto di offrire una testimonianza riguardo alla ricerca di vivere l’interiorità in una vita religiosa apostolica, quindi pienamente inserita nel mondo e nella storia, come d’altronde è anche la vostra.
Rileggendo la mia esperienza, mi è sembrato di poterla riassumere nella necessità che sempre più interiorità ed esteriorità vengano a coincidere. L’esempio di questa perfetta coincidenza lo abbiamo nell’Incarnazione del Verbo, che ovviamente non possiamo uguagliare, ma che in qualche modo e in una certa misura siamo chiamate a riprodurre, ovviamente attraverso un processo che dura tutta la vita.
Ho riletto l’autobiografia della vostra fondatrice e alcune pagine di un documento tratto dal vostro ultimo capitolo, e mi è sembrato di cogliere nella ricerca appassionata da parte di Gaetana Sterni della Divina Volontà l’elemento unificatore che presiede e orienta questo processo in cui, appunto interiorità ed esteriorità sempre più vengono a coincidere.
Credo che potremmo senz’altro tradurre questa Divina Volontà col termine Amore, l’Amore che Dio è, Amore che crea e opera nella storia. “Fare” la Divina Volontà significa quindi lasciar permeare sempre più le nostre facoltà, pensieri, affetti, scelte che ne conseguono, da questo Amore che è Dio.
Fatta questa premessa, per rispondere alla richiesta di una testimonianza personale ho pensato di fermarmi su ciò che mi ha aiutato e mi sta aiutando in questo processo, che è ben lungi dall’essere concluso, ma che si delinea con una certa chiarezza, come strada da percorrere.
E anche qui non posso non notare le somiglianze tra il cammino della nostra congregazione e il vostro, quando parlate della centralità della Parola di Dio e di un carisma che diventa criterio di discernimento del modo di stare, di essere, di lavorare. Dire che la Volontà di Dio diventa criterio di discernimento rimanda all’espressione di Sant’Ignazio “discreta Caritas”: la Carità che discerne.
A parte la similitudine, cosa comporta tutto questo nel concreto?
Mi sembra che, nel confronto tra Parola e realtà, tra ascolto della Parola e ascolto del grido dei poveri, quel confronto di cui parla il vostro documento quando dice “Interiorità – custodire e confrontare”, confronto che genera in noi attrazioni, ma anche resistenze, mi sono sentita chiamata a passare sempre più dal “Devo” al “Voglio”.
Di fatto sin dalla giovinezza sono stata attratta dalla “lectio divina” e ho preso a praticarla, continuando anche nella vita religiosa. In contemporanea avevo sentito una forte chiamata missionaria, in senso ampio, quello di uscire dai limiti del mondo ecclesiale consueto per comunicare a tutti la ricchezza del Vangelo, e questo mi ha portata a scegliere un Istituto di vita apostolica.
Tuttavia devo ammettere che per molti anni vita interiore, cioè contatto il con la Parola, i Sacramenti, la preghiera delle Ore, e vita quotidiana camminavano un po’ in parallelo. Nella vita interiore sentivo bene che il protagonista era Dio, ma nel quotidiano tornava l’io a prendere le redini. Ora c’è un modo di amare a partire dall’io che non è lo stesso di quello di Dio. Nel mio caso l’attrazione avuta da sempre per il mondo dei poveri era frutto di una direi quasi naturale sintonia e compassione, che però vivevo più in termini di dover imperativamente rispondere a dei bisogni, quindi con un forte senso di responsabilità, che non piuttosto in termini di comunicare vita, fiducia, amore, speranza… che è quello che Gesù faceva quando guariva i malati, e che era quello che in realtà desideravo vivere. E’ così che ho scoperto man mano l’importanza di passare dal “devo” al voglio”.
Cosa mi ha aiutata, o meglio mi sta aiutando, a passare da un “devo” a volte stressante e non di rado fonte di scoraggiamento quando determinati obiettivi non sono raggiunti, a un “voglio”, che agisce spontaneamente a partire dal riconoscere con gratitudine i tanti doni ricevuti da Dio?
Il primo grande aiuto mi è venuto dalla Spiritualità Ignaziana, rivisitata oggi secondo un’antropologia che non è più quella dei tempi di S. Ignazio, in particolare da un metodo di preghiera, che s’impara negli Esercizi, ma si trasferisce poi nella vita, che mira a coinvolgere tutte le facoltà della persona, comprese alcune zone d’ombra della psiche che se non portate alla luce possono costituire degli ostacoli a un discernimento autenticamente evangelico.
Ignazio parla della necessità, per raggiungere una vita apostolica matura, di una “scuola del cuore”, o scuola degli affetti, con l’intuizione, ampiamente confermata dagli studi della psicologia contemporanea, che le vere motivazioni delle nostre azioni non risiedono nell’intelletto = vedo la bontà di una scelta quindi la compio, ma nella volontà, che nel linguaggio del XVI secolo corrisponde all’affettività.
Insegna quindi sapientemente a utilizzare l’intelletto per leggere ciò che proviamo, sia nel confronto con la Parola che in quello con la realtà, per dargli un nome e scoprirne gli effetti positivi o negativi nella conduzione della nostra vita. Avviene quindi un riordino della varietà di affetti e desideri intorno al desiderio fondamentale , di una felicità che si scopre nell’Amore di Dio per noi e nostro per Lui. Man mano che questo processo compie in noi un cammino di purificazione la preghiera, dalla meditazione della Parola, sfocia in una contemplazione della persona di Cristo e dei suoi gesti e vicende, coinvolgente più l’immaginazione che il raziocinio, quindi più affettiva e passiva, unificatrice delle facoltà interiori, che lentamente, giorno dopo giorno, trasforma ed evangelizza gli affetti, cioè i sentimenti profondi della persona in cui risiedono le vere molle dell’azione, che vengono lentamente penetrati e permeati dai sentimenti, dallo sguardo, dai comportamenti del Cristo.
Dicevamo che un processo analogo a questo che avviene nell’interiorità della persona avviene al di fuori, nel contatto con la realtà e con le sue sfide, e in particolare con una realtà sfidante per eccellenza che è l’incontro concreto col povero. Così come la Parola fa lentamente verità in noi (Ebr 4,12), l’incontro col povero spesso così diverso da come ce lo siamo immaginato nel nostro desiderio di venire in aiuto, mette in luce la nostra fragilità, mettendo in crisi la volontà di potenza che è spesso sottesa al desiderio pur generoso di aiutare. A questo punto mi trovo ad un bivio: posso irrigidirmi nei miei precedenti schemi, in cui mantengo faticosamente il mio posto, diverso da quello del povero, oppure accettarmi egualmente povera, bisognosa di stima e gratificazione quanto lui, insicura e spesso spaventata da esigenze che non posso evadere, e infine sorella e compagna di viaggio, un viaggio in cui ciascuno dà e riceve in eguale misura.
Questo nuovo atteggiamento mi permette di fare spazio a un amore gratuito e creativo, più simile a quello di Cristo, più resistente nella crisi, pronto a rimanere in vita quando le energie umane si esauriscono. L’incontro col povero come verifica, banco di prova della crescita in me di questo amore che non viene dalle capacità del mio io, ma dall’intimità con l’amore di un Altro.
Questo stesso processo, di progressivo primato dell’Amore che discerne, mi ha portata col tempo a dare meno peso al funzionamento, e quindi all’efficacia, che pure è qualcosa di umanamente buono e desiderabile, di alcune realtà e strutture, rispetto all’importanza della qualità delle relazioni. Cosa che non mi è venuta affatto spontanea. Più di una volta nella mia vita la preoccupazione per il buon funzionamento di un’attività o di un’opera mi ha portata a incrinare delle relazioni, senza che per questo raggiungessi gli scopi che mi ero, o ci eravamo, prefissi.
E questo mi richiama molto la spiritualità del piccolo seme, di cui parlate nel documento già citato. Mi richiama cioè la generatività di ciò che è vita, anche piccolissima e fragilissima. Possiamo dirlo in altro modo: solo l’amore guarisce. Non automaticamente una buona organizzazione o un progetto ben realizzato trasmette in ogni momento l’amore che lo ha animato all’inizio. Questo non significa che progetti e strutture non siano necessari, almeno in alcune circostanze, ma richiede una grande vigilanza e in fondo una conversione continua, e di rimettere sempre al centro il fine rispetto ai mezzi.
In questi ultimi tempi sto facendo un esperimento nuovo: dopo aver trascorso molti anni della mia vita, in diversi luoghi, a cercare di dar vita a opere o associazioni in risposta a bisogni che apparivano scoperti, da quando sono tornata a Roma ho preferito inserirmi in attività e gruppi già esistenti, dove porsi ed agire come piccolo seme è indispensabile, per non subire un “rigetto”.
Questo mi obbliga a lunghe pazienze, ma soprattutto a cogliere, nonostante il peso di schemi consolidati, vita, amore e generatività in ogni persona che lavora con me, e appoggiarmi su questo per quei piccolissimi cambiamenti che sono possibili. Mi risuona la frase di San Giovanni della Croce: dove non c’è amore mettete amore e ritroverete amore. E’ una grossa sfida, ma credo che almeno negli ultimi anni della mia vita valga la pena viverla a fondo.
Floriana Raga