Abitare l’ospitalità
Febbraio 2017
Il CONTESTO
La migrazione è un fenomeno sociale che è esploso negli ultimi tempi e che mette in movimento persone, comunità e culture. Il mondo nella sua complessità politica, economica, sociale ed ecologica, ci invita ad andare contro corrente, ad essere in grado di abitare, la casa piccola e la casa comune, in modo critico, essendo, questo, un segno di ospitalità in mezzo alla tendenza globale di esclusione.
Il celebre sociologo Zygmunt Bauman nella fase conclusiva della sua vita, offre una prospettiva critica, ma anche di estrema apertura, ritenendo che l’inevitabile processo di meticciato culturale, dovuto all’emigrazione di extracomunitari in Occidente, è «fonte di arricchimento e motore di creatività per la civiltà europea così come per qualunque altra»; se la coabitazione è basata, da ambedue le parti, sul rispetto dei principi del “contratto sociale” europeo. Per Lui, Normalità è il nome elaborato, ideologicamente, per significare maggioranza. Cos’altro può significare, «normale», se non il fatto di ricadere in una maggioranza statistica? E cos’altro significa «anormalità» se non l’appartenenza a una minoranza statistica?
Il mondo abitato viene strutturato in modo da essere ospitale , conveniente e confortevole per i suoi abitanti «normali»: le persone che costituiscono la maggioranza.
Esistono disabilità fisiche, che in una società solidale potrebbero essere sanate, e ci sono altre disabilità molto più diffuse, anche se in questi casi i loro poteri disabilitanti vengono spazzati sotto il tappeto, ipocritamente negate o altrimenti ignorate e dissimulate. Non sono problemi medici o tecnologici, ma politici.
Vi sono, specialmente nella nostra società dei consumi, consumatori «squalificati», a corto di denaro, a cui non si fa credito e a cui perciò si nega la possibilità di raggiungere gli standard di «normalità» stabiliti dal mercato e misurati dal numero di cose possedute e dagli atti d’acquisto. Vi sono, anche, grandi quantità di giovani, fisicamente prestanti, in età scolare, disabilitati nei loro tentativi di raggiungere gli standard posti dal mercato del lavoro dal fatto di essere nati e cresciuti in famiglie i cui guadagni sono sotto la media o in quartieri deprivati e trascurati.
Ospitalità. Questa parola, tradotta dal greco, significa letteralmente “amore (affetto o gentilezza) nei confronti degli sconosciuti.” In latino, significa ” ricevere come ospite”.
L’ospitalità è un valore etico che evoca l’apertura ad un “noi”, che crea nelle persone l’esperienza che “nulla di umano mi è estraneo”.
Evoca i realtà vicine quali: la responsabilità, la compassione, la solidarietà, l’accettazione.
L’ospitalità è l’accoglienza di chi è diverso da me. L’ospitalità è una pratica che richiede il riconoscimento dei bisogni e delle esigenze dell’altro, della sua dignità e diversità.
L’ospitalità, nella tradizione biblica, è stata una legge (presente in diversi codici), una prassi (esercitata in vari modi), una consuetudine (la tradizione viva), un dovere (vissuto come imperativo), un valore morale (come un orizzonte di senso della vita di molte persone). Fin dall’inizio, l’ospitalità è legata a regole che consentono l’umanizzazione di quello che, diversamente, potrebbe essere scambio ostile o indifferente. San Pablo, considerandola fondamentale, dice: “Non dimenticate l’ospitalità” (Eb 13,2).
L’ospitalità è una caratteristica importante tra i cristiani. In effetti, nella Bibbia è fortemente raccomandato da Dio, ai suoi figli, di essere ospitali e di aiutarsi a vicenda senza lamentarsi. Egli dice: “Siate ospitali verso gli altri, senza mormorare” (I Pt 4, 9-10).
L’ospitalità richiede uno spazio, una lingua e un cuore che accoglie. L’accoglienza dell’ospitalità richiede attenzione continua nei confronti dell’altro. L’esperienza di sentirsi, o no, accettata è correlata a diverse variabili e sentimenti. C’è un’accoglienza speciale, un adeguamento al linguaggio, un’accoglienza ed intimità del cuore. E’ importante, quindi, saper apprendere ed imparare a vivere il nostro corpo e territorio.
Alla luce di questo contesto, vorrei invitarvi a fare una rilettura di quello che stiamo vivendo, avendo come sfondo il racconto della Visitazione, affinché i nostri incontri producano Magnificat ovunque, sia nell’abitare il nostro corpo, che nella vita comunitaria; nei diversi territori e scenari in cui interagiamo e nell’intera casa comune.
La Visitazione (Luca 1, 39-45)
“In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore».
In quei giorni.
Ogni giorno è un kairos, il tempo opportuno per uscire da se stessi, dai propri schemi, dalla propria casa, da costumi e pregiudizi, per andare all’incontro dell’altro, guidati dallo Spirito che ci permette di accoglierci reciprocamente, destabilizzandoci e spingendoci, continuamente, alla missione.
Si mise in cammino verso la regione montagnosa della città di Giuda.
Mettersi in cammino significa abitare il territorio, attraversarlo, avvicinarsi ad esso, fare nuove reinterpretazioni della realtà in cui siamo immersi. Implica anche superare le difficoltà che incontriamo tutti i giorni: incomprensioni, solitudine, stanchezza, delusione, senza perdere di vista l’orizzonte o l’obiettivo verso il quale siamo in cammino e neanche il significato del nostro viaggio e di quello che abbiamo trovato sulla strada. Tutto sulla Terra è correlato. Così, il territorio è umanizzato dalle attività del corpo, ma del corpo che lo vede, lo attraversa, lo coltiva perché è stato creato per rispondere a questa umanizzazione.
Abitare un territorio significa segnarlo, riconoscerlo e attraversarlo. Così è possibile creare un ambiente lungo il proprio percorso. Camminando si risponde a un mondo che si offre gratuitamente al camminante.
Abitare un territorio è percorrerlo, muoversi, spostarsi.
Quando si viaggia si affronta la necessità di ricerca, s’ impara quello che insegna il vuoto, il silenzio, tutto ciò che l’apparenza non mostra.
Abitare un territorio è anche dimorare e soffermarsi su di esso. Perdere tempo, riscaldarsi al sole. Stare, senza fare nulla, nei suoi luoghi: la contemplazione, l’ozio, il riposo, il respiro. Una contemplazione sempre visto con sospetto dal sistema (per qualsiasi sistema), se non accompagnata da una componente economica. Si potrebbe anche dire che abitare uno spazio è ricordarlo (fare metafore), sognarlo (aprirlo verso l’orizzonte), ricordare sognando. Perché, in effetto, ricordare è sognare: “I sogni hanno dato sempre forma alle città; e le città, a loro volta, hanno ispirato i sogni “(Illich 1989!).
Entrò nella casa di Zaccaria. Casa, viene dal greco oikos, da essa derivano parole e discipline fondamentali nel mondo moderno: “Economia” e “ecologia”. Oikos con il termine “logos” (studio), costituiscono il concetto di ecologia: lo studio della casa ambientale. Quella casa o dimora che comprende tutti i processi funzionali che la rendono abitabile.
L’ospitalità è entrare in casa degli altri e permettere loro di fare la stessa cosa. Accogliere è un’arte. Nell’esercizio dell’ospitalità, s’invita l’altro a far parte del proprio mondo . L’accoglienza fa si che l’ospite smetti di essere straniero e chi accoglie consideri un’opportunità la diversità. Tra l’uno e l’altro nasce un legame di affetto e una relazione di aiuto.
Abitare è l’impronta della vita. Abitare è un verbo della vita. Ci sono due testi di Ivan Illich che si occupano, in modo specifico, del tema dell’abitare in cui si afferma che solo gli uomini possono abitare. Abitare è un’arte. Solo gli esseri umani imparano ad abitare.
C’è una profonda relazione tra l’abitare e il vivere: la casa, come un’impronta della vita (mai terminata, mai del tutto progettata), fiorisce e decade nel tempo, con il passar degli splendori e dei fallimenti dei suoi abitanti. “La casa non è una tana. In molte lingue, abitare si dice anche vivere. Dove vivi? Chiediamo quando vogliamo conoscere il luogo in cui vive qualcuno “.
La casa ha subìto una perdita.
Equiparare l’abitare con il vivere viene da un periodo in cui il mondo era abitabile e gli uomini abitanti. Ogni attività si rifletteva e ripercuoteva nella casa. La casa era sempre un segno di vita, elemento vivo, un riflesso della vita, considerata incompleta fino al concludersi della vita dei suoi abitanti.
Saluto a Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Ciò che favorisce la cultura dell’incontro è la riconoscenza dell’altro attraverso gesti quotidiani, parole che aprono al dialogo, all’ascolto all’empatia. E’ saper godere e gioire della presenza dell’altro.
Abitare un territorio significa viverlo. La convivenza è l’azione di persone coinvolte nella creazione della vita sociale, “passare dalla produttività alla convivialità è sostituire un valore tecnico con un valore etico ‘. Significa rinunciare alla sovrabbondanza e alla superpotenza (di singoli o gruppi).
Abitare una regione è sentire, assumere, valorizzare la presenza di comunità che la abitano. L’arte di abitare crea spazi interni e spazi situati oltre le nostre porte di casa. Abitare un mondo significa fare affidamento sugli altri nell’atto di dimorare (è assumere la dipendenza personale) ed intervenire nella trasformazione umana: partecipare. In questo senso, partecipare significa vivere e relazionarsi in un modo diverso, implica riconquistare la propria libertà interiore; imparare ad ascoltare e condividere, liberi da ogni paura, pregiudizio e credenza. Questa libertà ci abita per far fiorire la vita e per poter contribuire, in maniera significativa, alla lotta per una migliore vita a favore degli altri.
Come condizione di convivenza: l’austerità, la rinuncia (non esclude i piaceri, ma solo quelli che degradano il rapporto personale). Il confine che separa il terreno inospitale del vivere, è la mutazione che colpisce il territorio e le città: l’ospitalità. Che non può definirsi dalla arroganza del tecnico (quelle “figure di un amore perverso”), ma come una condizione che le persone possono guardarsi faccia a faccia, senza intermediari. Aprire il territorio, la città, a chi viene da fuori, a chi la percorre, la condivide, la comprende. Abitare un territorio significa appropriarsene (lo faccio mio), ma anche desiderarlo (lo apro agli altri).
E lisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. Siamo terra spiritualizzata e lo spirito che abita in ognuno di noi è colui che ci fa gridare di gioia per l’altra / o, dire bene della sua vita e di Dio che ci benedice con la vita. (In quel tempo chi poteva benedire erano gli uomini, ma in questo incontro è una donna che benedice l’altra e dice bene di lei). In questo passaggio incontriamo anche che una generazione accoglie l’altra senza rimprovero, si fanno compagnia e ciascuna si pone al servizio dell’altra.
Abitare è costruire. Usando le proprie mani e i propri piedi le persone trasformano lo spazio, a casa e in patria. Solo attraverso azioni (curarsi, costruire la propria abitazione, prendersi cura del vicino, collaborare alla costruzione dei vicini) le persone possono vivere la libertà.
Abitare è i costruire il territorio valorizzando tutto ciò che contiene. E’ essere conoscente dello spazio vitale e del limite temporale. La persona integra i due aspetti attraverso la sua azione. L’energia trasformata in lavoro fisico consente di integrare il suo spazio e il suo tempo.
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Non dimenticate di offrire l’ospitalità agli stranieri, perché alcuni che l’hanno fatto, hanno accolto degli angeli senza rendersene conto! (Ebrei 13.2). Questa Parola invita tutte le culture al riconoscimento reciproco del diverso, vedendo in lui / lei la presenza del Signore. Inoltre ci chiede di liberarci dei nostri pregiudizi, di toglierci le scarpe per avvicinarsi all’altro come se fosse “terra santa”, perché è una terra abitata da Dio, non un terreno qualunque.
Abitare una città o un territorio è comprenderlo. La città e il territorio sono fatti culturali, possiamo capirli solo nella misura in cui ci avviciniamo. Questo implica sia imparare che disimparare. Effettuare una lettura significativa della povertà urbana e dei suoi contrasti.
Capire per celebrare il territorio (la casa, la città) e anche per riprenderlo. Valorizzare i cicli, le stagioni, il tempo di ciclico che lo percorre, ci permette di abitarlo incidendo in maniere significativa.
Beata colei che ha creduto al compimento delle cose dette dal Signore . Benedetti anche noi se crediamo che, nonostante quello che sta succedendo nel mondo (Nuova politica contro i migranti provenienti da UE, un’Europa che al freddo non accoglie lo straniero, la paura dell’altro diffusa, l’estrazione mineraria e l’inquinamento nei paesi via di sviluppo, etc.) continuiamo a sognare mettendo segni di speranza nei vari scenari in cui viviamo per trasformarli dato che Dio ci ha chiamati a costruire insieme questa missione. “Lasciamo che accada.”
Abitare ospitalità in Gaetana Le Suore della Divina Volontà, vedono in Gaetana Sterni, una persona capace di dimorare in se stessa nella piena consapevolezza del suo essere, di abitare il territorio e la comunità secondo i segni dei tempi, e di lasciarsi abitare da Dio unificando la sua volontà alla volontà di Dio nella storia. Con fiducia illimitata si abbandona come “debole strumento nelle mani di Dio”, il quale, a sua volta, usa questa sua disponibilità incondizionata, per i suoi progetti.
Così Gaetana scrive nel suo testamento spirituale: “Per quanto mi riguarda, non ho fatto altro che seguire i percorsi e forse imperfettamente, che la Provvidenza mi ha tracciato davanti, in modo che solo a questo deve essere attribuita l’esistenza della Congregazione” .
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Gaetana Sterni, solo per fare la volontà di Dio entra 1853 nel «Pio Ricovero” di Bassano e impegna tutta se stessa al servizio dei poveri vivendo come religiosa (Const. 1).
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Saremo aperte all’ambiente nel quale viviamo e ci faremo solidali con gli altri (Const.59).
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Nel nostro servizio tratteremo tutti con la soavità, la dolcezza e l’umiltà propria di chi nei poveri serve il Signore (Const.12).
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Rispondendo alla comune vocazione, ci impegniamo ad accoglierci e ad amarci nella diversità e ricchezza che ci costituisce, e a donarci reciprocamente l’aiuto, il perdono, la correzione fraterna. Pur nella fatica e nel limite cerchiamo di creare un ambiente che favorisca il progresso spirituale di ogni sorella (Const.56).
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Per crescere fino all’uniformità con la Volontà di Dio, unico assoluto della nostra vita, saremo attenti e obbedienti ai segni di cui si serve ogni giorno il Signore per farci sapere la sua volontà (Const.40).
PREGHIERA TERRA D’ACCOGLIENZA
Viviamo camminando
da un giorno all’altro
d a un luogo ad un altro
da una persona all’altra
dal silenzio alla parola
dal dubbio alla fede e di nuovo per l’incertezza
ci muoviamo, cambiamo.
Tutta la vita è un viaggio
ma, anche è parte della condizione umana questo continuo peregrinare
noi ci impegniamo a costruire barriere, ad alzare muri
a mettere confini tra persone e tra popoli
tra religioni o modi di pensare.
Oggi ti chiedo Signore, di aiutarmi a vivere con un atteggiamento diverso
con atteggiamento accogliente, che nasce dal sapere che l’altro è mio fratello.
In ogni lato del mondo si ama e si soffre
Si lotta per il presente, ci si apre al futuro
S’immagina una vita migliore
si crede, si prega, si bestemmia, si dubita
Su ogni lato del filo spinato ci sono persone buone e cattive
ci sono cuori sensibili che sognano destinazioni remote
e grandi risultati.
Su ogni lato del filo spinato c’è disagio nel pensare all’altro
Quello che sta oltre, il lontano, il diverso.
Ti chiedo Signore
di aiutarmi ad accogliere senza pregiudizio o prudenza
d’insegnarmi a fare della terra, un luogo comune
delle strade, un punto d’incontro
delle risorse, una tavola condivisa
perché nessuno che fugga,
si senta abbandonato per sempre.