Abitare la fraternità
Maggio 2017
Il salmo 132 canta la gioia dell’amore fraterno.
Iniziamo da qui la nostra preghiera e riflessione, perché in questo cantico la fraternità non viene solamente affermata nel suo valore o descritta nelle sue dinamiche; non viene neppure semplicemente invocata, ma è celebrata.
Il salmo è celebrazione di Dio che dona di vivere nella fraternità e che si rende egli stesso percepibile, riconoscibile, nella bellezza del vivere insieme come fratelli.
Anche se le immagini che troviamo sono diverse dalla nostra cultura (olio che scende sulla barba, rugiada…) il salmo sottolinea in modo evidente il rapporto profondo fra benedizione di Dio e vita fraterna.
La fraternità è frutto della benedizione di Dio e nello stesso tempo è il luogo in cui la benedizione di Dio diviene manifesta e assaporabile.
“Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
È come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba, sulla barba di Aronne,
che scende sull’orlo della sua veste.
È come rugiada dell’Ermon,
che scende sui monti di Sion.
Là il Signore dona la benedizione
e la vita per sempre.”
La fraternità: una vocazione ed una responsabilità.
La fraternità ci rimanda all’esperienza familiare della consanguineità, nati dalla stessa madre.
Il significato si può dilatare, può abbracciare non solo la famiglia biologicamente intesa, ma anche un clan, coloro che si richiamano ad uno stesso capostipite.
Nella forma più estesa della fraternità, quella che considera tutti gli uomini come fratelli fra loro, è necessario l’affermarsi della fede in un unico Dio, padre e creatore di tutti, per giungere alla consapevolezza di una fraternità fra tutti gli uomini.
È la fede in un solo Dio che consente a tutti gli uomini di riconoscersi fratelli.
Innanzitutto la fraternità non si costituisce solamente su un piano orizzontale di rapporti. Non bastano la simpatia, l’affinità a costruire la fraternità: è imprescindibile la linea verticale, con il suo riferimento a un padre e a una madre comuni.
L’essere fratelli, non dipende da una scelta, ma da un’accoglienza. Se tra amici ci si può scegliere, tra fratelli ci si deve accogliere; o ci si accetta, o ci si rifiuta. Nella fraternità il fondamento della relazione non è l’elezione, ma l’accoglienza.
Perché ci sia fraternità devo riconoscere l’altro come fratello. Nella Bibbia la fraternità è annunciata come necessità di custodire il fratello, come anche di rispondere del fratello e al fratello: Genesi 4, 8-10.
Nella fraternità c’è l’impegno di rispondersi reciprocamente e dunque di corrispondersi.
La fraternità chiede reciprocità, come pure postula una certa parità tra fratelli, la quale tuttavia, appare sempre molto esile, facilmente contestata.
Nel libro del Deuteronomio vediamo che la fraternità è un luogo di relazioni faticose, perché è l’ambito in cui si manifestano alterità e differenza. Colui che devo riconoscere e custodire come fratello si presenta sempre nella sua diversità, quella che ad esempio oppone il fratello maggiore al fratello minore… Questi rapporti appaiono sempre esposti alla dinamica della gelosia, dell’invidia, della predilezione… (Caino e Abele, Esaù e Giacobbe, Giuseppe e i suoi fratelli.)
Comunque sia, l’accoglienza del fratello passa sempre attraverso il riconoscimento della sua diversità. La Bibbia ha tutt’altro che una visione idealizzata della fraternità, il suo sguardo è al contrario molto disincantato, tanto che fraternità è spesso giudicata come luogo maggiormente esposto all’esplodere del conflitto, o quanto meno della difficoltà.
Il tratto positivo: il dentro della fraternità crea sempre un’intimità, un calore familiare, un focolare domestico, un senso di co-appartenenza, una profondità di relazioni che sono indispensabili per la maturazione della persona. Ciò significa che la fraternità è anche il luogo della profondità, dell’intimità della relazione che personalizza e rende concreta la nostra apertura all’amore.
Quando, nella sua 1 Lettera, Giovanni afferma che “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4 20), dobbiamo intendere questa affermazione in tutta la sua concretezza, anche corporea, sensoriale. È proprio colui che vedo, che tocco, con il quale mi relaziono ogni giorno che devo amare: il fratello che mi sta di fronte, non quello che immagino in astratto. Il dentro della relazione fraterna è lo spazio della personalizzazione dell’amore, il luogo dove l’amore non rimane una buona intenzione molto generica, ma si fa parola, sguardo, accoglienza.
Vivere l’amore fraterno nella reciprocità delle relazioni domestiche è anche la condizione per imparare a espandere la propria capacità d’amare al di là della reciprocità, in un atteggiamento di sincera gratuità.
Un ultimo tratto tipico dell’esperienza della fraternità: attraverso di essa l’altro mi costituisce in una nuova identità. Nel momento in cui chiamo l’altro “fratello”, io conferisco un nome nuovo anche a me stesso, appunto quello di fratello/sorella.
Questo implica che la relazione di fraternità diviene autentica solo se giunge a un impegno totale di vita, che coinvolge tutto l’essere della persona, non solo alcuni aspetti della personalità, la sfera dell’amore piuttosto che quella del fare o dell’agire.
Bruno Chenu, osserva a questo riguardo: “Che lo voglia o no, io ricevo il mio volto in parte dagli altri, leggo sul volto degli altri la traccia del mio proprio volto e interiorizzo l’effetto dell’incontro. Io non vedo mai in diretta il mio volto: la sola mediazione umana di questa conoscenza è il volto dell’altro”.
In una conferenza, il teologo Karl Ranher affermava che “l’amore al prossimo e la fraternità sono due parole che esprimono la stessa realtà”.
La fraternità chiede l’impegno totale del cuore, dell’essere, di tutta la persona.
La fraternità proclamata da Gesù
Gesù ha vissuto la fraternità universale, la fraternità con tutti gli uomini e donne che incontrava, in un modo che diceva la sua ospitalità nei confronti di tutti. Nei vangeli gli uomini-fratelli sono chiamati con il termine “prossimo”, che designa non tanto colui che ci è vicino, quanto colui che noi decidiamo di avvicinare, di rendere fratello quando lo incontriamo.
Tutti gli uomini sono fratelli perché figli di Dio, ma in verità diventa mio fratello solo colui al quale io mi faccio prossimo, vicino. “Amare il prossimo” (Mc 12,31) significa riempire di amore il nostro rapporto di fraternità con gli altri uomini, anche se sono fratelli-nemici. Gesù ci ha chiesto di benedire questi ultimi e di pregare per loro (cf Mt 5,44; Lc 6,27.35), di amarli come li ama il Padre celeste, che “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni” (Mt 5, 45). Gesù ci ha insegnato ad amare tutti gli uomini, nostri fratelli, senza aspettare il contraccambio, senza chiedere reciprocità di sentimenti; ci ha chiesto di salutarli augurando loro la pace (Mt 5,47; Lc 10,5). Gesù ci ha insegnato ad andare sempre oltre i confini stabiliti dalla fraternità carnale, etnica o religiosa. Ecco perché ha detto: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8), per insegnarci che qualunque uomo o donna, di qualsiasi lingua, popolo e cultura, è per ciascuno di noi un fratello, una sorella.
Gesù non ha parlato molto di fraternità, ma si è fatto concretamente fratello di tutti quelli che incontrava, abbattendo le barriere di divisione e distruggendo i muri di separazione costruiti dagli uomini e sovente da loro attribuiti alla volontà di Dio (Ef 2,14).
Nell’annuncio del giudizio finale (Matteo 25,31-46), Gesù definisce gli esseri umani che si trovano nel bisogno e nella sofferenza – quelli che hanno fame e sete, che sono stranieri, nudi, malati e carcerati – i miei fratelli, i minimi, i più piccoli, e rivela che ogni atto di relazione con ciascuno di loro decide del rapporto con lui stesso, il figlio dell’uomo, nel Regno: “Tutto quello che avete fatto a uno di questi miei fratelli, i più piccoli, l’avete fatto a me”.
E quei fratelli di Gesù non sono i credenti, non i cristiani, ma sono gli uomini vittime della storia, i sofferenti, i bisognosi che ogni terra e ogni tempo conosce come ultimi. “Hai visto tuo fratello? Hai visto Dio”.
Gesù fa ben di più: offrendo la vita liberamente, lasciando che gli altri prendano la sua vita, mostra che non c’è amore più grande che dare la vita per i fratelli, per gli amici (Gv 15,13).
La fraternità autentica testimoniata da Gesù ha la sua epifania sulla croce. Il Risorto poi, chiama i suoi discepoli “fratelli”. “Andate ad annunciare ai miei fratelli, che vadano in Galilea: là mi vedranno” (Mt 28,10) “Va’ dai miei fratelli e di’ loro: Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17).
La Chiesa di Dio sparsa nel mondo ha i tratti di una fraternità. È infatti nell’amore fraterno che si può cogliere il sigillo della “differenza cristiana”, quella capacità di fraternità e di comunione che portava i pagani a esclamare con stupore, di fronte ai primi cristiani: “Guarda come si amano vicendevolmente”.
La fraternità-sororità può sembrare una situazione naturale, ma in realtà essa è un compito che sta sempre davanti a noi: la fraternità va costruita giorno dopo giorno, perché non è spontanea. La fraternità viene da un’esperienza personale di solidarietà e di responsabilità.
La prima condizione per vivere la fraternità è l’accettazione incondizionata dell’altro, il rispetto assoluto di ciò che egli è; “rispetto” è un nome dell’amore sobrio, spogliato dall’emotività, essenziale. Quando io affermo: “ogni uomo è mio fratello”, affermo la mia volontà di rispetto per ogni uomo che incontro, che entra in rapporto con me.
Possiamo infatti trascorrere un’intera esistenza accanto ad altre persone senza mai decidere di incontrarle, di con-vivere e con-soffrire con loro…!
La comunità religiosa luogo dove si diventa fratelli/sorelle
Per “abitare” la vita fraterna nella “comunità religiosa” occorre innanzitutto sentire la propria presenza tra le altre sorelle come la risposta alla nostra “vocazione”, al dono del Signore che ci convoca insieme. Io sono nella comunità per Lui che mi ha chiamata a mettere la mia vita nelle Sue mani. Mi ha convocata a vivere insieme ad altre sorelle. La mia presenza, l’essere là, è concretamente per Lui, con e per le altre sorelle e per gli altri, per la Missione che ci viene affidata.
La dinamica della vita fraterna in comunità
La prima dinamica è donare la propria presenza; all’interno di questo sta il dare ascolto all’altro.
Essere presente all’altro domanda il dono del tempo: attendere l’altro, “sacrificare”, fare sacrificio del proprio tempo.
L’altro ci impone di aver cura di lui. Abbiamo bisogno gli uni degli altri, abbiamo bisogno di senso. È solo la relazione, la comunione, la fraternità, l’amore che possono dare senso a ciascuno di noi. La vera via dell’umanizzazione è quella della “responsabilità” per l’altro.
Io ho bisogno dell’altro per vivere: “mai senza l’altro”. Nessun membro della comunità può dire di non aver bisogno dell’altro membro (1 Cor 12,21).
Fare comunità significa condividere. Dove c’è l’amore, là si vive la condivisione di ciò che si è e di ciò che si ha.
Più profondamente, prima di condividere doni e cose nella comunità, si tratta di condividere le debolezze. Se infatti c’è un luogo in cui si accende il fuoco della fraternità e della carità, è proprio là dove si condividono le debolezze, dove si prova a “portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2), dove si arriva a piangere insieme (Rom 12,15). A caro prezzo, dunque, ma solo allora è vera comunità.
Dietrich Bonhoeffer ha scritto a proposito della comunità cristiana: “Solo se è un peso, l’altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare”.
Santa Teresa d’Avila, nella sua riforma della vita comunitaria nel monastero, dice: “E’ fondamentale vivere l’amore in comunità, perché è assurdo vivere insieme senza amarsi”.
Dagli Scritti di Madre Gaetana
Regole da osservarsi fra compagne
“Perché la vostra unione possa tornare a Dio gradita e a voi sommamente vantaggiosa, bisogna certamente che essa sia quale si conviene a persone consacrate al Signore, e che provenga e si mantenga mediante la vera carità. Sì, solo la cristiana carità potrà formare dei vostri cuori un cuor solo; essa vi assisterà a reciprocamente compatirvi e amarvi e vi terrà sempre in una santa concordia, in una inalterabile pace. Per giungere a questo vi regolerete fra voi nel seguente modo: vi amerete caldamente nel Signore, riguardandovi tutte come figlie di uno stesso Padre, non solo, ma anche come spose del medesimo celeste divin sposo Gesù.
Vi rispetterete reciprocamente… Non userete distinzione alcuna fra l’una e l’altra delle compagne, ma ognuna deve riguardare le altre come migliori di sé e trattare con tutte ugualmente. … Vi guarderete scrupolosamente dal parlare fra di voi dei difetti che potreste vedere in qualche vostra compagna, anzi vi compatirete reciprocamente, ed ognuna pregherà per tutte.”(Pag 33).
Dalle nostre Costituzioni
“Rispondendo alla comune vocazione, ci impegniamo ad accoglierci e ad amarci nella diversità e ricchezza che ci costituisce, e a donarci reciprocamente l’aiuto, il perdono, la correzione fraterna. Pur nella fatica e nel limite cerchiamo di creare un ambiente che favorisca il progresso spirituale di ogni sorella. La semplicità con cui comprenderemo ciò che sta a cuore a ciascuna sarà segno della carità che vive tra noi.” (C. 56)
Da Papa Francesco
Nell’Esortazione apostolica: Amoris Laetitia, al capitolo quarto, troviamo i commenti e le indicazioni concrete sul come vivere l’Inno alla carità, di S. Paolo. I suggerimenti non sono solo per vivere l’amore nel matrimonio, ma anche per vivere l’amore nel quotidiano della vita fraterna in comunità, con le persone con le quali si condivide la vita: cerchiamo di meditarle; ci aiuteranno.
“La carità è paziente,
benevola è la carità;
non è invidiosa, non si vanta,
non si gonfia d’orgoglio,
non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia,
ma si rallegra della verità.
Tutto scusa, tutto crede, tutto spera,
tutto sopporta” (1 Cor 13,4-7)
Paziente: si mostra quando la persona non si lascia guidare dagli impulsi ed evita di aggredire, di rispondere con ira.
Benevola: persona che mostra la sua bontà nelle azioni, fa il bene.
Non è invidiosa: l’invidia è una tristezza per il bene altrui, e dimostra che non ci interessa la felicità degli altri.
Non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto: chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé, ma poiché è centrato sugli altri, sa mettersi al loro posto. Non solo non si sente superiore agli altri, ma li serve.
Non si adira: non agisce in modo scortese, rude, invasivo. Amare significa rendersi amabili e avere uno sguardo amabile, che non mette in rilievo i difetti e gli errori altrui.
Non tiene conto del male ricevuto: la persona non è rancorosa, piuttosto perdona.
Si rallegra della verità: si rallegra per il bene dell’altro, si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere.
Tutto scusa: l’amore si prende cura dell’immagine degli altri.
Tutto crede: ha fiducia.
Tutto spera: indica la speranza di chi sa che l’altro può cambiare.
Tutto sopporta: significa che sopporta con spirito positivo tutte le contrarietà. Una resistenza dinamica e costante, capace di superare qualsiasi sfida.